intervista

“Se la scrittura non diventa un’arma, siamo perduti”

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El Espectador 6 febbraio 2014.

Intervista a Beatriz Preciado

di Sara Malagón Llano

 La filosofa spagnola Beatriz Preciado parla di transfemminismo, teoria queer e della sua esperienza con il testosterone che si è tradotta in un “saggio corporeo” dal titolo Testo Yonqui.

Lei ha studiato filosofia e successivamente ha concluso un dottorato in teoria dell’architettura. Si è dedicata prima all’uno poi all’altro per piacere o crede che ci sia una connessione tra i due?

Da sempre mi sento differente, ho sempre avuto la sensazione di essere fuori dalle norme dato che gli altri mi vedevano come diversa. Fin da piccola mi chiamavano “la lesbica”. Poi, ho trovato nella filosofia un luogo per poter acquisire un insieme di strumenti critici che mi avrebbero permesso di ridefinire le relazioni tra il normale e il patologico. Non ero malato o malata, per questo sentivo di dover ridefinire i termini e le categorie con le quali pensavo al maschile e al femminile. Nonostante la mia formazione filosofica in Spagna sia stata classica, fu lì che lessi Marx, per esempio, e successivamente mi sarebbe servito per pensare alla ridefinizione di quello che ti dirò.

All’università mi vedevano come una donna (e io non mi definisco come donna) e come lesbica, di conseguenza non avevo niente a che fare con l’ambiente accademico spagnolo di quel periodo. Ottenni una borsa di studio Fullbright e me ne andai negli Stati Uniti, che erano in una fase di riconfigurazione di tutte le discipline, i saperi subalterni (il pensiero femminista, quello lesbico e quella che poi fu la teoria queer, il pensiero post-coloniale o della decolonizzazione, tra gli altri) stavano elaborando un attacco contro i luoghi della produzione del sapere come le università. Là ho conosciuto Jaques Derrida, per questo motivo poi me ne andai a lavorare in Francia.

Il mio coinvolgimento con la teoria dell’architettura ha avuto a che fare con il mio interesse per come si costruisce e si normalizza il corpo nella modernità. Ho iniziato a pensare al corpo non come qualcosa di naturale, ma come spazio di intersezione di tecnologie che sono, in realtà, tecniche di governo e normalizzazione del corpo, che sia per la produzione industriale, per la produzione sessuale o delle differenti gerarchie tra il normale e il patologico, l’eterosessuale e l’omosessuale, il biologico e l’anormale, le razze bianche e non bianche ecc…

Quando arrivai all’Università di Princeton, c’era un gruppo di teorici che lavorava a una storia critica della tecnologia. Per me il corpo è come un’architettura della modernità, o una delle tante. Tuttavia, noi viviamo la forma incarnata di tale architettura, non ci rendiamo conto di cos’è, pensiamo che sia qualcosa di naturale quando, in realtà, è una costruzione. Questo spiega perché ho concluso un dottorato in teoria dell’architettura e perché sono sempre in contatto con degli architetti. Mi piace pensare la realtà come uno spazio di trasformazione tecnologica.

Il suo lavoro Manifesto contra-sessuale è diventato un riferimento della teoria queer. Che cos’è esattamente la teoria queer?

Si potrebbe dire che è la teoria degli anormali, di coloro che sono considerati malati da parte dei discorsi della medicina inventati nel XIX secolo. È, inoltre, la teoria dei corpi subalterni. Include gay e lesbiche, ma anche tutti i soggetti e i corpi pensati come inferiori dal discorso coloniale e disciplinante della modernità. Tuttavia, io discuto attorno l’origine di questa teoria, perché in principio queer era un insulto: significa “finocchio” o “brutta lesbica”. Quello che succede, è che alla fine degli anni ’80, nel momento di crisi legato all’AIDS, negli Stati Uniti alcuni piccoli gruppi si appropriano di questo insulto e ne fanno un luogo di riflessione critica e di azione politica. Questo è quanto succede nella genealogia nordamericana, e credo debba essere messo in discussione (in quanto genealogia oggi dominante) da altre tradizioni, come quella colombiana e spagnola ma anche francese (qui dicono “francese” e per dire “europeo”, ma non so se sei a conoscenza di quello che è oggi la Francia in termini di genere e sessualità: è peggio della Colombia!)

Tornando a quello che è successo negli Stati Uniti, negli anni ’80 c’è stato uno sviluppo molto forte di politiche di normalizzazione nei confronti dei gay e delle lesbiche, che si è tradotto in una petizione per il matrimonio omosessuale, per il diritti di adozione per gli omosessuali, e anche in un insieme di politiche per l’uguaglianza a favore di cambiamenti legislativi. Questo processo di normalizzazione in Colombia o in Cile, per esempio (o in Spagna e Francia, dove il dibattito è ancora aperto), si sta dando ora, e la conseguenza è che non possiamo parlare dello stesso processo e delle stesse genealogie. Il caso statunitense è interessante perché da tre decenni emergono gruppi che non vogliono la normalizzazione, ma che mettono in discussione la divisione binaria e come si producono storicamente le relazioni tra eterosessualità e omosessualità, mascolinità e femminilità. Quello che viene messo in discussione, quindi, è l’istituzione matrimoniale stessa.

Davanti al movimento di normalizzazione (che è conosciuto come movimento LGBTI) ci sarebbe quindi un altro movimento, quello queer (che in Europa chiamiamo “transfemminismo”), il quale mette in discussione l’opposizione tra mascolinità e femminilità, eterosessualità e omosessualità, insieme alle relazioni gerarchiche tra razze bianche e non bianche, di fronte alla possibilità che ci sia una molteplicità di formazioni morfologiche e somatiche che non passano per il binarismo (o divisione binaria). Non so, magari esistono quattro persone che desiderano adottare qualcuno, o adottare in gruppo tre persone che vivono in strada. Perché l’uno o l’altro, necessariamente? Perché la maternità normativa o l’adozione gay? Io direi, piuttosto, che il queer è il movimento più radicale e più utopico, perché afferma che le trasformazioni sociali non si possono fare unicamente attraverso il cambiamento legislativo.

Sono necessarie trasformazioni profonde delle definizioni di cosa è normale e cos’è patologico e questo trascende la sessualità. In una società come quella neoliberale, che in modo ciclico e premeditato permette che ci sia un volume di persone disoccupate come riserva infinita di manodopera, come è possibile continuare a giudicare e patologizzare una persona che non ha lavoro? Pertanto, non si tratta solamente di questioni legate alla sessualità. Non mi considero omosessuale, chi si crede o definisce omosessuale, che continui pure a definirsi con categorie del diciannovesimo secolo, io non devo definirmi in questo modo! E non perché mi consideri migliore degli altri, ma perché ognuno può adottare una posizione critica rispetto alla propria soggettività.

Questo è molto più difficile da fare quando ci si trova in una posizione di “normalità”. Come dire, la persona eterosessuale afferma: “Io sono eterosessuale, io sono normale”. Ma credo che ci sia un momento, estremamente necessario a livello sociale, che sta nel riconoscimento del privilegio: è possibile che io, in quanto bianco ed europeo, abbia evidentemente un privilegio sociale e politico. Poi si verifica un secondo processo, che io chiamo “di soggettivazione critica”, che consiste nel dirsi: “Mi trovo in condizione di rinunciare ai miei privilegi a favore di una ridefinizione delle relazioni sociali di potere”. Può esserci, per esempio, una separazione dell’eterosessualità come pratica e come regime politico. Non si tratta semplicemente di chi ci portiamo a letto, si tratta di definire in quale regime politico mi inscrivo, come sto pensando le relazioni di potere. Per questo possono esserci persone omosessuali che assumono posizioni totalmente normative, o eterosessuali coinvolti nel movimento queer. Questa differenza, quindi, politicamente non serve più.

In Colombia non c’è stato un vero sviluppo delle teorie femministe e nel mondo già si parla di post-femminismo. Dove si radica la differenza tra una e l’altra corrente?

È curioso: se vengo in Colombia mi dicono che il femminismo non c’è, ma se vado in Spagna mi dicono la stessa cosa. Sì, c’è, il problema è che non viene mediaticamente rappresentato, come negli spazi del potere e nell’istituzione accademica. C’è stata una cancellazione sistematica delle tradizioni critiche del femminismo, dell’anti-schiavitù e del discorso anti-coloniale. È un problema mondiale. Una frangia piccolissima dell’ambiente universitario americano ha tentato di istituzionalizzare gli studi femministi, ma questo è un risultato estremamente fragile e costantemente sottoposto a critiche.

Questa è la situazione anche di molte altre minoranze. Rilevante è il fatto che pensiamo alle donne come minoranza politica, nonostante siano il 51% della popolazione. Sono una minoranza perché in termini egemonici si trovano in una posizione subalterna. Non significa che le donne siano vittime, ma che esiste un insieme di strutture sociali che legittimano e naturalizzano l’oppressione delle donne. Mi sembra inammissibile. Punto. Per questo non mi definisco donna ma femminista, o meglio, come transfemminista, perché non credo alla divisione tra uomo e donna. Questo è lo stesso sistema binario che si trova nella lotta per il diritto al matrimonio e l’adozione omosessuale. Bene: che i gay si sposino, che abbiamo figli, come dire, che integrino quell’insieme di relazioni che definiamo come eterosessuali per ottenere lo status di “normalità” se lo vogliono. Questo è il movimento tradizionale, mentre il movimento queer mette in discussione la produzione della norma. Le sue radici stanno chiaramente nella critica all’oppressione storica delle donne, ma si è spinto oltre la discussione sulle differenze tra uomo e donna, perché non si riproducano storicamente. Dopodiché, ognuno faccia quello che vuole! Il modo in cui io mi costituisco come soggetto politico è una scelta! Molte donne, e molte femministe, sostengono di fatto l’esistenza di una differenza naturale e biologica, difendono la ricostruzione di una specie di uguaglianza politica tra uomini e donne. In realtà è più complesso ed è possibile che il movimento femminista abbia fallito precisamente a causa della chiusura all’interno della donna. Lo stesso è successo ai movimenti indigeni, per esempio. Io sostengo un indigenismo critico, non uno naturalista. L’indigeno e la donna sono progetti del futuro, non condizioni date. Per questo parlo di transfemminismo, perché credo che si debba mettere in discussione la naturalità della divisione sessuale binaria. La situazione non è mai stata peggiore di questa! Quello che succede oggi è davvero complesso e paradossale.

Pensa che Michel Foucault, il primo pensatore a parlare di biopolitica e di produzione di soggettività, continui a interrogarci? In che modo? Come lo legge?

Foucault ha cambiato il mio modo di leggere la storia della sessualità, e in termini teorici e concettuali credo di star proseguendo il progetto iniziato da Foucault. Forse l’unica differenza consiste nel fatto che era uno storico che osservava retrospettivamente come la sessualità si fosse prodotta in tecnica di normalizzazione nei secoli XVIII e XIX, sebbene stesse scrivendo nel momento in cui nascevano i movimenti omosessuali e femministi (forse non ne parlava perché continuava a nascondersi, a non dichiarare il proprio orientamento sessuale). Foucault non ha lavorato sull’effetto che le politiche minoritarie potevano avere sul discorso dominante, tantomeno sull’insieme di tecniche del corpo che stavano nascendo negli anni ‘50, ‘60 e ‘70.

Io, in un certo senso sto seguendo il progetto foucaultiano, ho tentato di creare una genealogia critica delle tecniche che appaiono proprio a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. Da allora molte delle tecniche di normalizzazione biopolitica sono mutate a causa dell’introduzione di quelle che chiamo “tecnologie blande” (biochimiche, digitali, informatiche, audiovisive), che hanno trasformato radicalmente il modo in cui si produceva la divisione tra normale e patologico in termini sessuali. Non è una critica a Foucault. Lui ha iniziato un progetto che resta incompiuto (per via della sua morte), siamo in molt* a desiderare di ricostruirlo, ma lo facciamo pensando ai cambiamenti avvenuti a partire dagli anni ‘50, quelli di cui non è riuscito a parlare Foucault.

Lei dice che l’accademia è normativa ed è un’istituzione chiusa, però spesso la teoria nasce e resta nell’accademia. Crede che la teoria queer trascenda realmente l’ambito accademico? Crede che effettivamente la filosofia esca o dovrebbe uscire dalle aule dell’università? Come raggiungere questo obiettivo?

Io in realtà non faccio una critica dell’istituzione in sé. Lavoro per un’università e contemporaneamente per il Museo di Arte Contemporanea di Barcellona perché mi interessa moltissimo lavorare con gli artisti, con persone che vengono dall’ambito accademico e con gli attivisti, che a volte non hanno una formazione accademica accreditata. Mi interessa quello che accade quando queste persone lavorano insieme. Prima c’era una divisione netta tra tutte queste istanze, ma io credo che la politica sia uno spazio di invenzione collettiva e che se vogliamo trasformare le relazioni di potere basate su etnia, genere e sesso, dobbiamo immaginare un altro insieme di relazioni e dobbiamo desiderare il cambiamento.

Non possiamo realizzare un cambiamento sociale che non desideriamo, ma la maggior parte delle persone non lo desidera veramente perché vuole mantenere i propri privilegi sociali e politici.

Occorre modificare la struttura del desiderio, e ciò si può fare solo collettivamente. Si tratta anche di un progetto artistico, poiché deve cambiare il modo in cui rappresentiamo i corpi e le relazioni di potere. Il cinema e la letteratura dovrebbero essere spazi di critica, mentre in alcuni casi sono spazi di normalizzazione che perpetuano il binarismo. Ad esempio, lo fa il cinema di Hollywood (e non parlo del cinema latinoamericano, sarebbe troppo complesso) per questo sono necessari immaginari politici dissidenti che dobbiamo costruire insieme.

Gli attivisti non possono staccarsi dalla critica, e tantomeno possono cessare di pensare l’ambito sociale come ambito creativo. L’accademia non può stare soltanto dentro le università e gli artisti non possono continuare a pensare alla bellezza in termini astratti.

Al posto del Festival di Hay, in cui la gente viene a vedere conferenze di un’ora, io porterei dieci attivisti, dieci artisti e dieci critici e chiederei loro di ricostruire la storia di Cartagena, di pensarla a partire da un immaginario politico di trasformazione sociale, non a partire dalle convenzioni capitalistiche e coloniali che pongono Cartagena dove si trova.

A proposito del suo libro Testo Yonqui, come concepisce la relazione tra vita e filosofia? Quando la filosofia si fonde con la vita?

Il rapporto diretto tra l’una e l’altra è qualcosa che ho appreso tanto dalla teoria femminista quanto da Derrida, che praticava l’esercizio della filosofia in prima persona. Con ciò voglio dire che la filosofia è sempre un esercizio di finzione, di finzione critica. Per questo dico che Testo Yonqui è un “saggio corporale”. Quel testo ha qualcosa di speciale: riflette la mia decisione di inventare autonomamente un protocollo di assunzione del testosterone, che generalmente si somministra a coloro i quali vengono riconosciuti medicalmente come uomini o a coloro i quali desiderano un cambio di sesso. Queste persone vengono identificate come “malate” e il testosterone è la terapia per questa diagnosi. Io ho deciso di assumerlo non per cambiare sesso, ma perché mi interessava il processo di trasformazione critica e corporea; inoltre ho deciso di farlo con dosi minime (per dirlo in altro modo, omeopatiche) e al di fuori di un protocollo medico. Dopo ho scelto di trasformare questo esercizio in scrittura e allo stesso tempo, nei nove mesi dell’esperimento, ho intrapreso una ricerca sulla storia estetica e politica degli ormoni. Testo Yonqui è l’unione di teoria e pratica ma, come ogni testo autobiografico, ha finito per essere anche un esercizio di finzione.

Sebbene non sia una scrittrice di romanzi cosa pensa dell’orizzonte teorico in cui si muove il vecchio – e per me poco fruttuoso – dibattito sulla “scrittura femminile”? Crede che esista? E se sì, si tratta più di una costrutto ideologico attraversato da numerosi discorsi antifemministi e retrogradi? Esiste realmente una voce, una prospettiva o un modo di vedere la realtà propriamente femminile?

No… tutto ciò è terribile. Credo che pensare che esista una scrittura femminile equivalga a pensare che il corpo femminile, per natura, produca una scrittura caratteristicamente femminile. Quello che credo è che, se le donne come minoranza storica e subalterna sono state escluse dalla produzione letteraria, a partire da Virginia Woolf, e soprattutto a partire dagli anni ’60, hanno iniziato ad avere accesso alla scrittura come luogo di produzione di senso, di conoscenza, di verità. Questo movimento è importantissimo, ma non corrisponde a quello che si intende per “scrittura femminile”. È piuttosto il processo attraverso cui la donna, come soggetto politico subalterno, si riappropria della scrittura per definire la realtà e il processo sociale.

Allo stesso modo mi sembra aberrante parlare di scrittura omosessuale, o di scrittura maschile. Altra cosa aberrante, conseguenza dell’assunto sulla scrittura femminile, è l’idea che le donne siano donne prima di essere scrittrici.

Ci sono conferenze letterarie in cui vengono invitate tre scrittrici semplicemente perché sono donne anche se non hanno nessuna relazione con i temi trattati e indipendentemente da come scrivono. È orribile! E succede ovunque. Ed è terribile che le donne lo accettino. È necessario fare una critica transfemminista della scrittura per utilizzarla come uno spazio che punta a destabilizzare le opposizioni di cui stiamo parlando.

Se la scrittura non è un’arma di trasformazione, siamo perduti.